Riprendiamo dopo la pausa natalizia a raccontare della vera storia del sud e in particolar modo delle vicende che portarono all’Unità d’Italia. Lo facciamo con questo scritto del ricercatore dott. Marco Vigna. Si dirà che la storia la scrivono i vincitori, quindi ciò che si leggerà è un qualcosa di artefatto. Purtroppo per costoro non è così, la storia la scrivono gli storici utilizzando un metodo scientifico di lettura e interpretazioni delle fonti, è difficile da capire immaginiamo, ma non possiamo farci nulla.

Pubblichiamo questo lavoro in due parti essendo abbastanza corposo, le fonti al testo verranno pubblicate il mese prossimo quando pubblicheremo la seconda parte.

Partiamo:

la-battaglia-di-calatafimi-1170x600

 

La battaglia di Calatafimi è divenuta nell’immaginario dei sedicenti revisionisti del Risorgimento uno degli idoli polemici del proprio repertorio propagandistico, accanto a Fenestrelle, Pontelandolfo, Pietrarsa.

La ricostruzione fallace da loro presentata è che in questa battaglia le truppe borboniche sarebbero state sul punto di vincere, quando sarebbero state fatte ritirare da un ordine del generale Landi, che sarebbe stato corrotto. Alcuni si spingono a dire, anzi a scrivere, che la battaglia di Calatafimi non sarebbe mai avvenuta (sic!) e che i borbonici avrebbero avuto accidentalmente morti e feriti mentre scendevano una collina, sparandosi fra di loro, mentre i morti garibaldini sarebbero stati suicidi o decessi per il caldo e la fatica (sic!). A questo livello di assurdità si è giunti. Una rapida sintesi del ciclo operativo della battaglia è sufficiente ad evidenziare la totale mancanza di veridicità e persino di verosimiglianza delle stravaganti ed apodittiche ipotesi dei revisionisti.

L’esercito borbonico aveva nel 1860, al momento dello sbarco di Marsala, 21.000 uomini, quasi tutti concentrati a Palermo (16.000) ed i rimanenti in prevalenza dislocati in Sicilia orientale, a Messina ed altre località. Quasi l’intera isola era pressoché abbandonata agli insorti, che erano sparsi ovunque.
Garibaldi aveva con sé soltanto un migliaio di uomini, che per quanto selezionati con cura erano troppo pochi per sconfiggere da soli un nemico venti volte superiore di numero e che aveva a sua disposizione artiglieria e cavalleria. Il suo piano strategico era di ottenere una piccola vittoria contro un modesto reparto nemico, animare così i rivoltosi siciliani spingendoli ad unirsi alla sua minuscola armata, quindi irrompere a Palermo per scatenare una rivoluzione generale. Egli, sbarcato a Marsala il 12 maggio del 1860, si era affrettato a spostarsi nel paese di Salemi, nell’interno dell’isola, sulla strada per Palermo, giungendovi il 13 maggio.
Il piano strategico dei borbonici, confermato il 14 maggio del 1860 (il giorno prima della battaglia) era invece di tenere saldamente la capitale e le maggiori fortezze, prime fra tutte quelle di Messina, poderose e vicine al continente, e qui attendere l’attacco nemico.
Il luogotenente del re in Sicilia, il principe di Castelcicala, aveva consultato i suoi ufficiali dopo lo sbarco di Marsala ed aveva scritto al suo re: «Non essere conveniente, attesa la già compiuta rivoluzione morale dell’Isola, sperperare le forze contro gente avvezza a manovrar su montagne, e far la guerra di partigiani, ma attendersi invece lo attacco in punti non lontani troppo dalla città». Il messaggio era stato inviato al sovrano il 14 maggio via telegrafo.
Francesco II non aveva obiettato nulla ai suggerimenti del principe, anche se a Napoli aveva consultato altri generali. Il suo factotum era il generale Carlo Filangieri, che aveva riconquistato la Sicilia nel ’48-’49 con una durissima repressione e che re Ferdinando II aveva proposto al figlio, poco prima di morire, come l’uomo di cui avere massima fiducia fra tutti i disponibili.
Il generale Filangieri, fedelissimo alla casa Borbone ed il militare più capace dell’esercito delle Due Sicilie, aveva elaborato un piano che prevedeva di tenere Palermo e di rafforzare le guarnigioni di Messina ed altre località della Sicilia orientale, per poi marciare contro i rivoltosi siciliani a Caltanissetta ed Agrigento, per circoscrivere la sollevazione. Il piano aveva trovato il consenso di Ferdinando Lanza, che re Francesco II aveva scelto come nuovo luogotenente della Sicilia, e non aveva incontrato obiezioni dal sovrano.
In breve, re Francesco II, il suo consigliere principale generale Filangieri, il luogotenente in carica della Sicilia principe di Castelcicala, il prossimo luogotenente dell’isola Ferdinando Lanza, erano tutti d’accordo sull’idea di evitare di confrontarsi direttamente con Garibaldi in campo aperto, stare sulla difensiva nella capitale e nelle fortezze. Il piano del Filangieri prevedeva un’azione offensiva, ma non immediata e contro i rivoltosi dell’interno, non contro i Mille.

Lo stesso giorno, il 14 maggio, un altro generale borbonico si trovava nelle immediate vicinanze dell’esercito garibaldino: era il Landi. Questi si trovava a Palermo con il grosso al momento dello sbarco di Garibaldi ed era stato mandato ad ovest con alcuni reparti alla notizia dell’arrivo del Nizzardo. L’incarico dato al Landi era puramente esplorativo: egli non aveva il compito d’individuare e distruggere l’armata garibaldina, ma soltanto di cercare di capire che cosa stesse succedendo. Il Landi aveva con sé un numero di uomini pari a circa 2800 come forza teorica, anche se quella effettiva era certamente minore, formati dai soldati dell’8° battaglione Cacciatori, dal 2° battaglione del 10° fanteria, da un battaglione di Carabinieri (a parte il nome, non avevano nulla in comune con i Carabinieri del regno di Sardegna; si trattava di un reparto di soldati di fanteria), uno squadrone di cavalleria e quattro pezzi di artiglieria.
Al Landi era stato ribadito, il 14 maggio, di non combattere Garibaldi e di ritirarsi a Palermo. L’ordine che gli era stato mandato in quella data recitava: «Uniformandomi al parere del consiglio di generali di stamane, invece di spingere i nostri contro la colonna di filibustieri sbarcati a Marsala e che di là prese il cammino per Mazzara e Castelvetrano, Ella ripieghi su Partinico, dove si piazzerà militarmente dichiarandovi lo stato d’assedio. Ricordi che Palermo è la sua base di operazione. Si metta in comunicazione con Monreale, sua seconda base». Il messaggio era stato spedito da Palermo il 14 maggio, ma gli giunse soltanto il 15 maggio, come si vedrà fra poco.

Dopo aver fatto riposare i suoi uomini per una giornata ed aver raccolto attorno a sé alcune centinaia di volontari siciliani, il 15 maggio Garibaldi si pose in marcia all’alba verso nord-est, con l’obiettivo di cercare ed affrontare il contingente di truppe regie che gli informatori avevano comunicato essere stanziato nella città di Calatafimi.
Al tempo stesso, il Landi muoveva verso sud con il suo reparto, continuando la sua missione esplorativa ed ignaro sia dell’ordine del principe di Castelcicala, che imponeva di ritirarsi a Partinico, sia della presenza nelle vicinanze dell’armata garibaldina. Egli lamentava nei suoi messaggi che l’intera popolazione era ostile al dominio borbonico e che era impossibile trovare anche soltanto una spia: «neppure una sola spia fedele a nessun prezzo», scriveva. I suoi movimenti avvenivano quindi alla cieca.
Il Landi spedì in avanti il maggiore Sforza, con due compagnie dei Cacciatori ed uno squadrone di cavalleria, seguito dal grosso formato da altre quattro compagnie dell’8° battaglione, dal 2° battaglione fanteria e da parte dei Carabinieri con l’artiglieria. I reparti rimanenti rimanevano più arretrati come riserva, al comando diretto del Landi stesso. È l’antefatto della battaglia di Calatafimi.

Attorno alle 9 del mattino le avanguardie garibaldine e borboniche si scorgono. Garibaldi aveva spedito in avanscoperta un piccolo reparto di guide, comandante da Giuseppe Bandi e Francesco Nullo, e Sforza aveva fatto lo stesso con il suo squadrone di cavalleria. Gli esploratori, individuata la presenza del nemico, ripiegarono da entrambe le parti.
Il teatro della battaglia fu il seguente. A nord-est si trova Calatafimi, presso cui era installato Landi con le riserve. A sud-ovest la cittadina di Vita, da cui proveniva Garibaldi. I due paesi erano collegati da una strada, che percorreva un fondovalle fiancheggiato da colline. Subito a nord di Vita si trova il colle di Pietralunga, mentre a metà strada fra le due città sorge la collina Pianto Romano, che all’epoca era divisa nel suo pendio meridionale in sette terrazzamenti coltivati a frutta.
Il maggiore Sforza concentrò le sue truppe in cima a Pianto Romano ed osservò il nemico: i garibaldini si erano concentrati su Pietralunga, mentre i volontari siciliani si erano invece addensati sulle colline laterali, ad est ed ad ovest della strada, un poco lontani e discosti. Lo Sforza scambiò le camicie rosse dei garibaldini per gli abiti di colore rossastro od arancione che indossavano i forzati nelle galere delle Due Sicilie e credette che d’avere di fronte un’orda di evasi dalle carceri. Egli aveva avuto l’ordine di procedere in esplorazione e non di attaccare battaglia, ma convinto di una facile vittoria ordinò l’attacco e mandò un messaggero al suo superiore per avvisarlo di quanto stava accadendo. Erano circa le ore 11.

Mentre avveniva tutto questo, che cosa faceva Landi? Il generale aveva 70 anni ed era stato spedito in Sicilia malgrado fosse gravemente ammalato d’un tumore, ormai diagnosticatogli dai medici, che lo avrebbe condotto a morte da lì a poco e che gli impediva anche solo d’andare a cavallo. In pratica, era stato spedito ad affrontare Garibaldi un uomo che era un malato terminale. Il Landi comunque non si aspettava una battaglia in quel momento ed aveva dato l’incarico allo Sforza di andare in esplorazione, non di attaccare di sua iniziativa. Egli pertanto era rimasto in posizione presso Calatafimi con molti reparti.
La notizia che il suo subordinato, di propria volontà, aveva preso contatto con il nemico giunse al generale, per singolare fatalità, subito prima che egli ricevesse l’ordine giunto da Palermo dal luogotenente del re, principe di Castelcicala, che prescriveva di sospendere la missione esplorativa e ritirarsi verso Palermo. Era il comando che si è riportato sopra e che ottemperava alle direttive della Luogotenenza siciliana e dell’alto comando di Napoli, incluso il sovrano.
Il Landi però se avesse ordinato la ritirata quando lo Sforza era già impegnato nel combattimento avrebbe lasciato solo l’imprudente subordinato ed avrebbe sicuramente determinato la sua sconfitta, per cui decise, con ineccepibile logica militare, di sostenere l’azione contro Garibaldi ed ordinò alle compagnie rimanenti dell’8° battaglione Cacciatori di accorrere in soccorso. Questi reparti si trovavano fra l’avanguardia dello Sforza e la retroguardia del Landi e potevano affluire celermente. Il resto rimase presso Calatafimi, secondo la buona prassi militare di tenere truppe di riserva pronte per essere impiegate dove e quando si sarebbe reso necessario. Napoleone dovette molte delle sue vittorie all’impiego oculato delle riserve ed anche per questo le sue campagne sono studiate nelle accademie militari di tutto il mondo. Come si vedrà fra breve, Garibaldi a Calatifimi agì anch’egli come Landi ed evitò di gettare subito nella mischia tutte le sue truppe.

Senza attendere i rinforzi che ancora dovevano arrivare, poco dopo le 11 i reparti che il maggiore Sforza aveva a sua disposizione scesero dalla collina e percorsero la strada avanzando dritti verso i Mille. Durante il percorso le truppe borboniche eseguirono alcune manovre, del tutto inutili e che avevano la presumibile intenzione d’impressionare il nemico. Lo Sforza mostrava così di sottovalutare l’avversario e di ritenere che avrebbero opposto scarsa resistenza.
Garibaldi fu contento che il nemico venisse avanti, perché questo gli avrebbe consentito di sfruttare la posizione difensiva assunta sulla collina, che dava un certo vantaggio al suo minuscolo esercito. Egli ordinò quindi di aspettare che i regi giungessero a distanza ravvicinata, poi di sparare a volontà sul nemico, infine di contrattaccare alla baionetta. L’Eroe dei Due mondi aveva sempre privilegiato difatti nelle sue guerre il combattimento all’arma bianca, «il ferro freddo» come egli lo definiva, rispetto all’azione con il fuoco, perché permetteva di meglio sfruttare le qualità dei suoi uomini, volontari male addestrati ma determinati, e d’esercitare l’effetto psicologico prodotto da una carica alla baionetta. Sia l’esperienza bellica, sia la teoria militare confermavano che, sebbene la maggioranza delle perdite nelle battaglie fossero provocate dall’azione di fucili e cannoni, gli attacchi all’arma bianca potevano determinare il collasso e la fuga d’interi reparti così aggrediti.