Giusto un mese fa stavamo illustrando la battaglia di Calatafimi e ci siamo fermati un attimo prima dello scontro tra le truppe garibaldine e quelle regie. Potete rileggere cliccando https://pungiglioneblog.com/2020/01/19/rubrica-storica-la-battaglia-di-calatafimi-come-e-perche-garibaldi-vinse-parte-i/

Questo il prosieguo:

mdo-5192329

Il generale di Nizza aveva disposto le sue truppe molto scaglionate in profondità: in prima linea le guide ed i carabinieri (termine che indicava, come nella controparte borbonica, tiratori scelti e non membri dell’Arma tutt’oggi esistente), poi altre due compagnie, le 8° e la 7°, quindi la 5° e la 6°, rinforzate sul lato esterno dalla 9°. In cima alla collina si trovano la 4° e la 5°, mentre sull’altro versante sono poste come ultima riserva la 1° e la 2° infine le due rimanenti del suo minuscolo esercito. L’artiglieria, consistente in un vecchissimo pezzo di bronzo ad affusto rigido buono più per spaventare che per uccidere, era sulla strada, protetta da una squadra di picciotti siciliani. Il grosso dei volontari siciliani si trovava però sulle colline laterali, divisi in due gruppi al comando di Stefano Sant’Anna e Giuseppe Coppola.
I regi avevano innanzi a tutti le due compagnie di Cacciatori, che aprirono il fuoco per prime, a cui risposero i reparti avanzati dei garibaldini. Lo scambio di scariche fu breve ed inconcludente, prima che i Mille passassero al contrattacco in massa all’arma bianca, provocando l’immediato ripiegamento dei borbonici.

Incalzati da vicino dall’8° compagnia dei Mille, formata da bergamaschi, i reparti borbonici furono fermati dal maggiore Sforza sulla collina Pianto Romano da cui erano partiti, che forniva una posizione difensiva solida con i suoi sette terrazzamenti, simili a giganteschi gradini.
Il grosso dell’esercito regio si schierò sulle pendici del colle ed attese i nemici: era circa mezzogiorno. Le prime compagnie di garibaldini, che avevano seguito dappresso le unità borboniche in ripiegamento, si gettarono in avanti, ma affrontavano un nemico superiore di numero e su posizione favorevole. Tre volte le compagnie 10° ed 8° dei Mille si gettarono in avanti e tre volte furono respinte.
Garibaldi non aveva ordinato questo attacco al colle, prematuro, ma i suoi uomini, coraggiosi ma indisciplinati, avevano agito di loro sponte in preda alla frenesia della battaglia. A malincuore, il generale nizzardo dovette accettare d’impegnare il combattimento sul Pianto Romano, che dava ai borbonici il vantaggio della posizione. I terrazzamenti però offrivano un certo aiuto anche agli assalitori, perché creavano un “angolo morto” per la fucileria proveniente dall’alto, ossia garantivano un riparo per gli attaccanti, che potevano ammassarsi ai piedi dei gradoni senza essere colpiti.
Attorno alle 14 arrivarono al sostegno delle due compagnie già in linea anche la 7°, la 6°, la 5°, poi la 3° e la 4° comandate da Bixio, poi la 9°. Con quasi tutti i Mille in azione, essendo tenute di riserve soltanto due compagnie di 100 uomini cadauna, una quinta carica ottenne successo e scacciò i borbonici sino a metà collina circa. Lo Sforza aveva truppe maggiori di numero con un rapporto di 3 a 2, circa 1800 contro 1200 (fra volontari imbarcatisi a Quarto ed un gruppo di picciotti) e con il vantaggio della posizione soprastante, ma i suoi uomini erano in evidenti difficoltà davanti alle cariche alla baionetta degli avversari.

Il maggiore aveva richiesto aiuto al Landi, che aveva inviato altri reparti di rinforzo, ma essi erano ancora in marcia da Calatafimi. Il grosso dei picciotti siciliani, alcune centinaia di uomini, continuava a non partecipare allo scontro e fungeva da spettatore, sulle colline ai due lati di Pianto Romano, limitandosi a levare grida e sparare in aria per incitare i garibaldini. Gli insorti siciliani, privi di addestramento e di un armamento adeguato, erano titubanti a gettarsi nella mischia ed aspettavano di vedere in che modo la battaglia si fosse decisa.

Attorno alle 15 l’offensiva dei garibaldini pareva essersi arenata ed il loro comandante prese ad esporsi di persona, come era solito fare, per incitare i suoi uomini che iniziavano ad essere stanchi dopo cinque cariche all’arma bianca. Garibaldi guidò di persona un altro violento assalto alla baionetta sul pendio della collina, ritrovandosi come il poncho bucherellato di colpi ma miracolosamente illeso, come era accaduto diverse volte nei combattimenti del Gianicolo. La sesta carica respinse ancora più indietro i borbonici, ormai sulla sommità di Pianto Romano, ma gli assalitori erano ormai sfiniti avendo speso molte più energie dei loro opponenti nei ripetuti attacchi sul pendio. Garibaldi decise allora d’impiegare le ultime riserve, la 1° e la 2° compagnia, ed ordinò loro di recarsi sulla linea del fuoco.

Attorno alle 16, prima che arrivassero i rincalzi, il momento era decisamente critico per i garibaldini, che si trovavano in quel momento in circa 900 contro 1800, stanchi dopo aver eseguito sei cariche ed in posizione sfavorevole. Il maggiore Sforza si rese conto della vulnerabilità dell’avversario e decise che era ora di contrattaccare. I volontari rannicchiati alla base dell’ultimo gradone, a pochi metri dai regi, udirono distintamente le trombe delle compagnie nemiche suonare la carica ed i loro ufficiali incitare gli uomini. Un attacco alla baionetta dei borbonici eseguito in quel frangente avrebbe certamente travolto i garibaldini, per pure ragioni fisiche: una massa doppia che si precipitava dall’alto verso il basso non avrebbe lasciato scampo alle compagnie dei Mille ivi schierate.
Ma la carica fu ordinata invano: i soldati delle Due Sicilie accennarono ad un debole movimento in avanti, poi si fermarono spaventati e sordi ai comandi dei loro superiori. Il timore che i reparti borbonici provavano davanti alla prospettiva di un corpo a corpo, che si era palesato durante tutta la battaglia con i loro costanti ripiegamenti davanti alle baionette nemiche, si manifestò ancora una volta. I fanti di Francesco II non osarono incrociare le lame e rimasero in posizione difensiva, sparando addosso al nemico.

La situazione era comunque assai difficile per i Mille, che avevano anche molti ufficiali feriti, fra cui Bixio, Nullo, Türr, Sirtori. È in quel momento che Bixio consigliò a Garibaldi di ritirarsi, al che l’Eroe rispose con la celebre frase: «Qui o si fa l’Italia o si muore». Un’altra versione della risposta è la più prosaica, ma ancora più terribile: «E dove andiamo?». Garibaldi sapeva bene difatti che soltanto una vittoria avrebbe permesso alla sua piccolissima armata di sopravvivere, giacché in caso di sconfitta i volontari siciliani, scoraggiati, lo avrebbero abbandonato ed egli si sarebbe trovato da solo contro tutto l’esercito borbonico della Sicilia, senza aiuti e senza luogo in cui riparare. Non vi era salvezza per i Mille nella ritirata, ma solo nella vittoria.

Garibaldi decise quindi di preparare un altro attacco con il «ferro freddo» e per far questo percorse il piccolo fronte incitando gli uomini, mentre la 2° compagnia dei Mille rafforzava la linea. Il comandante della 1° compagnia, Giuseppe Dezza, aveva invece osservato che i borbonici erano tutti ammassati in cima al colle, per cui la loro posizione era aggirabile sul lato orientale (il destro dei garibaldini), ed aveva chiesto al suo generale di poter cogliere sul fianco i nemici. Garibaldi approvò e così fu predisposto l’assalto finale.

Il grosso dei garibaldini, capitanati personalmente dall’Eroe, si gettarono in avanti alla baionetta per la settima volta. Le ultime fasi della battaglia furono convulse. La bandiera dei Mille fu presa dai regi dopo la morte dell’alfiere, Simone Schiaffino, ma l’avanzata dei patrioti continuò. In quel momento la 1° compagnia sbucò sul fianco sinistro dei regi, cogliendoli alla sprovvista e demoralizzandoli. I garibaldini furono rincuorati: la 7° compagnia piombò sull’artiglieria borbonica, impadronendosene, mentre le altre premevano dappresso. I battaglioni delle Due Sicilie, con il nemico ormai arrivato in cima alla collina, si volgevano in fuga e scendevano precipitosamente il declivio, braccati dalle prime schiere dei volontari e dai picciotti siciliani, che, rimasti fermi sino ad allora, alla vista della rotta dei regi si erano buttati al loro inseguimento.
I reparti che Landi aveva inviato in soccorso e che stavano giungendo furono coinvolti nella rotta del grosso, poiché i fuggiaschi borbonici spedirono nel disordine i commilitoni sopraggiunti. D’altronde la battaglia era perduta e lo Sforza fece ritirare i suoi uomini a Calatafimi, riunendosi al Landi. I garibaldini avevano inseguito solo per scacciare definitivamente i nemici dal campo di battaglia, poi, stanchissimi dopo più di cinque ore di combattimento, si erano accampati presso la collina.

I morti fra i Mille furono 33, cui seguirono altri 8 nei giorni successivi. I picciotti siciliani ebbero 12 morti. I borbonici ebbero 30 morti sul campo, s’ignora quanti perirono nei giorni seguenti per le ferite riportate.

Anche se le perdite erano state leggermente maggiori fra i garibaldini, il morale delle unità regie era però atterrato dalla sconfitta ed il Landi, con uomini intimoriti e demoralizzati, conscio anche che la notizia della vittoria di Garibaldi avrebbe incendiato la Sicilia, prese la giusta decisione di ritirarsi verso Palermo già nella notte del 16 maggio.
Fu la scelta corretta, perché il suo piccolo esercito fu subito attaccato dagli insorti siciliani a Partinico, dove gli abitanti tesero un agguato sparando addosso ai militari che sfilavano per le vie. I borbonici allora eseguirono una rappresaglia contro la città, ammazzando cittadini ed appiccando il fuoco. I rivoltosi però, dopo essersi dispersi, ritornarono all’attacco serrando la retroguardia della colonna del Landi ed uccidendo 40 uomini: più di quanti ne fossero periti a Calatafimi. La colonna del Landi fu poi nuovamente aggredita mentre passava un fiumiciattolo al guado. Correttamente, si potrebbe e dovrebbe parlare di battaglia di Partinico.
Il Landi, il settantenne mortalmente malato che era stato spedito ad affrontare Giuseppe Garibaldi, fu accusato di tradimento e spedito davanti ad una corte marziale delle Due Sicilie, che giustamente lo assolse.
Il generale borbonico non ebbe infatti colpe nella sconfitta. Inviato in una missione esplorativa, vide la sua unità coinvolta in una battaglia per iniziativa personale del maggiore Sforza, che decise di testa sua di attaccare senza neppure chiedere l’autorizzazione al superiore. Se fosse stato davvero un traditore, il Landi avrebbe potuto ordinare la ritirata all’inizio della battaglia, come effettivamente imponeva l’ordine appena giuntogli dal Luogotenente del re in Sicilia, mentre egli scelse di appoggiare l’azione del subordinato ed inviò in soccorso quasi tutta la forza di cui disponeva. Soltanto una piccola riserva non fu impiegata, ma il Landi non poté adoperarla per la minaccia incombente degli insorti siciliani, che egli sapeva essere presenti tutti attorno ed in forze, ignorando però quanti e dove fossero e quali intenzioni avessero. D’altronde, sino a quando la battaglia di Calatifimi non fu decisa anche il grosso dei “picciotti” evitò di partecipare al combattimento e sarebbe stato un grave azzardo da parte del generale borbonico gettare nella mischia la sua ultima riserva con masse fresche nemiche schierate ai fianchi in attesa del momento favorevole.
Neppure si potrebbe imputare al Landi di non essersi recato al colle di Pianto Romano, poiché egli non era neppure più in grado di cavalcare e doveva spostarsi penosamente in carrozza a causa della sua grave malattia. Se poi egli si fosse recato alla collina, ammesso che riuscisse ad arrivarci, che cosa avrebbe potuto fare nelle sue condizioni di salute? Sarebbe stato un peso morto e per di più avrebbe lasciato le riserve senza un comandante.
La conduzione diretta della battaglia da parte regia spettò al maggiore Sforza, che diede prova di coraggio ma anche di avventatezza, cercando l’urto nella convinzione che il nemico sarebbe crollato subito.
Cause fondamentali della vittoria garibaldina, ottenuta con inferiorità di uomini e mezzi, furono il morale più alto dei combattenti, che ebbero il coraggio di sferrare sette cariche alla baionetta, mentre i loro avversari non osarono condurne una sola, e l’esempio trascinante dei loro ufficiali, in primis Garibaldi che si espose al fuoco davanti a tutti trovandosi con gli abiti a brandelli per le pallottole che lo avevano sfiorato. Anche tatticamente il Nizzardo fu superiore allo Sforza, sapendo sfruttare un terreno di per sé sfavorevolissimo all’attaccante ed a realizzare un prezioso aggiramento che contribuì al tracollo morale dei battaglioni delle Due Sicilie.

  1. C. Abba, Da Quarto al Volturno, Pisa, 1866
  2. M. Trevelyan, Garibaldi in Sicilia, Vicenza 2004 (edizione originale 1909)
    C. Cesari, La campagna di Garibaldi nell’Italia meridionale, Roma 1928
  3. Agrati, I mille nella storia e nella leggenda, Milano 1933
  4. Giglio, Il Risorgimento nelle sue fasi di guerra, Milano 1948
  5. Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino 1962
  6. Mazzonis (a cura di), Garibaldi condottiero. Storia, teoria, prassi, Milano 1984
  7. Virga, La rivoluzione nel regno delle Due Sicilie. L’insurrezione siciliana e la campagna di Garibaldi nell’Italia meridionale, Pozzuoli 2012