Settimana cruciale e poi il 21 settembre sapremo se la Costituzione sarà modificata. Noi come ben sa il nostro lettore siamo per il NO. Stavolta ci facciamo guidare nelle ragioni del NO da Mario Anzevino docente di diritto e di economia politica, ma non solo questo. Mario, infatti, di modifiche costituzionali se ne intende visto che nel 2016 assieme a Giovanni Matteo Centore scrisse un libro “Il giorno dell’apocalisse” che trattava in maniera dotta e approfondita la riforma renziana.

Ecco quindi cosa ci dice Anzevino:
Il 20 e 21 settembre si voterà il referendum confermativo sulla riforma costituzionale che prevede il taglio di 345 parlamentari (230 deputati e 115 senatori). La riforma prevede altro? No. Motivo della riforma secondo i proponenti pentastellati: “risparmiare 500 milioni di euro a legislatura, ben 300mila euro al giorno, tagliare le poltrone e mandare la casta a casa!” dice Luigi Di Maio. Ma dimostra di non saper far di conto ed entra in contraddizione con la sua campagna antireferendaria del 2016. Tra poco vedremo perché. Intanto proviamo a ragionare. Quando si concepisce una riforma costituzionale bisogna porsi una semplice, ma dirimente, domanda: come migliorerà il funzionamento delle istituzioni? Ebbene a questa domanda, se posta in riferimento alla riforma in oggetto, non c’è risposta, o peggio la risposta è: non migliorerà il funzionamento delle istituzioni, ma lo peggiorerà. Giulio Andreotti in uno dei suoi tanti momenti illuminati una volta disse: ”Il Parlamento ha un costo di 500 miliardi di lire, potremmo risparmiarli abolendolo, ma avremmo il risparmio e non avremmo più la democrazia”. Risparmiare nel campo della finanza pubblica è sempre una cosa lodevole, ma la democrazia ha un costo perché si fonda anche sull’esistenza e sul funzionamento delle istituzioni. Una riforma costituzionale deve avere lo scopo di migliorare queste istituzioni e il risparmio più essere una conseguenza, un piacevole effetto collaterale e non il fine ultimo, altrimenti c’è il rischio concreto della caccia alle streghe e del malfunzionamento dello Stato. Inoltre, se di solo risparmio si deve parlare, allora perché non tagliare 645 parlamentari invece che 345? Così risparmieremmo di più. Oppure perché subito dopo la vittoria del Sì il Presidente del Consiglio non si dimette e i parlamentari promotori del taglio non certificano la non volontà di formare una maggioranza e non chiedono al Capo dello Stato di sciogliere le Camere? Il taglio verrebbe applicato subito alle nuove elezioni e risparmieremmo con 3 anni di anticipo i citati 300mila euro al giorno! Oggi sembra che fare politica e avere una carica sia una colpa e un atto ostile perpetrato ai danni degli italiani, ma pare valga per tutti tranne che per una forza politica. Il populismo e l’antipolitica seminano soltanto odio e contrapposizione sociale dividendo il mondo sempre e solo in categorie, diffondendo tanta ignoranza e informazioni false e non offrendo quasi mai soluzioni, oppure offrendo soluzioni che si scontrano e sgretolano con la realtà. Ma la rabbia e l’odio non sono e non devono essere categorie della politica. Proviamo, quindi, a uscire dalla grande ipnosi. Devo prima di tutto necessariamente soffermarmi sull’aspetto quantitativo dei risparmi. Sono davvero 500milioni? Un parlamentare ottiene a vario titolo tra i 13.500 e i 14.330 euro netti al mese (a seconda che sia un deputato o un senatore). L’Irpef (applicata su una parte delle somme) non è né un costo né un risparmio perché è una partita di giro; si tratta, infatti, di somme che escono dal bilancio delle Camere e attraverso di esse (che agiscono come sostituti di imposta) arrivano all’Erario. Si tratta, pertanto, di una voce neutra che non va considerata nel risparmio. Alla luce di questa precisazione possiamo facilmente calcolare che il taglio di 230 deputati porta a un risparmio sulla legislatura di 186.300.000 di euro, mentre il taglio di 115 senatori porta a un risparmio sulla legislatura di 98.877.000 di euro. A queste somme va aggiunto il risparmio per l’assegno di fine mandato (50.000 euro per i deputati e 41.700 euro per i senatori) di 16.295.500 euro, per un totale di 301.472.500 euro (a tale risultato arrivano anche illustri docenti universitari). Mancano all’appello 198.527.500 di euro per arrivare ai 500 di cui parla Di Maio. E se prendiamo alla lettera i 300mila euro al giorno propagandati (per un totale di 547.500.000 euro) ne mancano all’appello 246.027.500.
Cosa sosteneva Di Maio nel 2016? L’attuale Ministro degli Esteri all’epoca sventolava una nota della Ragioneria dello Stato (n. 83572 del 28 ottobre 2014) che quantificava il risparmio (riferito alle indennità) derivante dal taglio di 315 senatori in 49milioni di euro annui, facendo intendere che si riferisse a tutta la riforma e al quinquennio. In pratica lasciava la risposta della Ragioneria e cambiava la domanda giocando anche su un equivoco temporale. In pratica per Di Maio l’intera riforma renziana valeva 49 milioni, la sua ora ne vale 500
O mente adesso o mentiva allora. Ebbene, il nostro Ministro degli Esteri è riuscito nell’impresa di mentire in entrambi i casi! Oggi perché fa una moltiplicazione farlocca probabilmente considerando anche l’Irpef e conteggiando risparmi collaterali che ignorava nel 2016; allora perché si tenne la risposta della Ragioneria dello Stato e cambiò la domanda.
Ma ipotizziamo che Di Maio dica il vero sui 500 milioni. Allora deve spiegarci, unitamente a tutti i suoi epigoni, perché se tagliamo 345 parlamentari risparmiamo 100 milioni l’anno (500 nella legislatura), mentre se con la riforma del 2016 avessimo tagliato 315 senatori, il CNEL, 76 Province con i rispettivi Presidenti e oltre 1.000 Consiglieri, i contributi ai gruppi parlamentari del Senato e dei Consigli regionali, se avessimo equiparato l’indennità dei Consiglieri regionali a quella dei Sindaci dei capoluoghi di regione avremmo risparmiato la miseria di 49 milioni! Misteri costituzionali!
Preveniamo subito un’obiezione: la riforma del 2016 tagliava quasi lo stesso numero di parlamentari. Vero. Ma quella riforma superava il bicameralismo perfetto eliminando tutti i 315 senatori e lasciando al Senato (composto da Sindaci e rappresentanti delle Regioni) il ruolo di camera delle regioni di cui si parla da decenni. Era la Camera dei Deputati a svolgere tutte le attuali funzioni del Parlamento e il suo funzionamento non veniva compromesso da un taglio lineare.
Con questa riforma si pongono problemi di rappresentanza e problemi pratici di funzionamento.
Dal dossier del Servizio Studi di Camera e Senato del 25 giugno 2019 si evince come con la vittoria del Sì il rapporto tra deputati eletti e popolazione passerebbe a 1,04 a 0,66 ogni 100mila abitanti, risultando il valore più basso tra i principali Paesi europei (Francia e Germania 0,9, Spagna 0,8, Regno Unito 1). Invece di fare i conti alla Toninelli (vedere post e foto sul suo profilo FB), qui si riportano i dati comparati riferiti alla sola Camera perché per le “camere alte” (i senati) il confronto diventa impossibile e fuorviante (ecco perché Toninelli lo propone) in quanto nell’UE 15 Paesi su 27 sono monocamerali, mentre negli altri 11 le funzioni del senato sono diverse da quello italiano e in alcuni casi non c’è l’elezione diretta da parte dei cittadini (es. Germania e Austria). A queste aspetto non trascurabile si aggiunge la riduzione dei rappresentanti della circoscrizione Estero, la diminuzione del numero dei collegi elettorali con il conseguente loro ampliamento che provocherà un aumento dei costi della campagna elettorale e lo sfilacciamento del legame tra eletto e territorio. Nelle regioni medio piccole la riduzione dei seggi senatoriali comporterà una soglia di sbarramento implicitamente più alta tagliando fuori dalla rappresentanza parlamentare minoranze consistenti. La riduzione del numero dei seggi lasciando invariate le funzioni (soprattutto al Senato) peggiorerà la qualità dei lavori parlamentari e comprimerà il dibattito, i parlamentari dovranno far parte di più Commissioni (il cui numero rimane invariato) o si dovranno accorpare le Commissioni creando problemi di funzionamento e di asimmetria con la Camera dei Deputati e con i corrispondenti Ministeri. Insomma, un peggioramento generale del funzionamento delle istituzioni, una riduzione della rappresentanza, una compressione delle minoranze (soprattutto nelle regioni medio piccole) e risparmi inferiori a quelli propagandati. Si può sacrificare la ragione al populismo? Datevi una risposta.
Mario Anzevino
Docente di Diritto ed Economia Politica